In particolare, l’articolo 2598 del codice civile fornisce un elenco, non esaustivo, dei comportamenti che possono essere considerati una forma di concorrenza sleale, ovvero: usare nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri; imitare i prodotti di un concorrente; compiere qualsiasi atto idoneo a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; screditare, tramite notizie e apprezzamenti sui prodotti, l’attività di un concorrente; avvalersi di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Qualora venga posto in essere un comportamento che integra tale fattispecie, la sentenza che ne accerta l’esistenza ne inibisce la continuazione e ordina gli opportuni provvedimenti finalizzati ad eliminarne gli effetti. Inoltre, se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore ètenuto al risarcimento dei danni.
Sull’ipotesi del risarcimento dei danni per comportamenti configurabili come concorrenza sleale èrecentemente intervenuta la Corte di Cassazione, che con la sentenza n.5848 dell’8 marzo 2013 ha affermato la necessità che il soggetto danneggiato provi sia la reale perdita patrimoniale subita che la non futilità del danno ricevuto. E’ inoltre necessario che le informazioni screditanti siano rivolte ad un pubblico indistinto, o comunque ad un numero consistente di persone.
Nel caso in esame, in particolare, la Suprema Corte ha respinto la richiesta di risarcimento avanzata da un’impresa che non era stata in grado di provare la sussistenza dei suddetti elementi, nemmeno tramite presunzioni semplici, poichè le informazioni screditanti erano state comunicate a singoli individui, in un contesto limitato e soltanto occasionalmente.