Il procedimento eseguito nei laboratori esteri pare che sia tecnicamente molto semplice e, soprattutto, molto redditizio: le aziende agroalimentari acquistano grandi quantità del poco costoso olio “lampante†(una qualità minore, ottenuta mediamente spremitura meccanica delle olive, caratterizzata da forte acidità e altri difetti organolettici), lo alterano mediante processi fisici volti a deodorarlo e renderlo pi๠passabile, e infine lo rivendono con l’etichetta di extravergine.
In particolare, il procedimento consiste nel passare il prodotto liquido attraverso correnti di vapore incandescente, tali da eliminare aromi sgradevoli.
Il prezzo medio delle bottiglie di olio lampante deodorato oscilla fra i 2,5 e i 3 euro al litro (ma nei discount puಠessere anche pi๠basso), e dunque nettamente pi๠economico rispetto all’olio extravergine “docâ€. D’altronde, gli studi condotti recentemente dall’università di Bologna sono allarmanti: si stima che almeno il 70% dell’olio presunto extravergine acquistato dalle famiglie italiane sia in realtà questo suo misconosciuto surrogato.
I produttori italiani sono sul piede di guerra di fronte a questa situazione che, al momento, non trova che generiche tutele legislative.
La definizione di “olio extravergineâ€, cosଠcome accettato dalla legislazione comunitaria, esclude la possibilità di qualsiasi processo chimico-fisico che alteri le proprietà naturali del prodotto, e pertanto l’olio “taroccatoâ€, pur commestibile, non dovrebbe avere alcun diritto di recare la prestigiosa etichetta; tuttavia, ad oggi sono ancora allo stadio sperimentale le tecniche di laboratorio che consentano di distinguere il vero extravergine dal lampante deodorato, e ai produttori italiani non resta che aspettare che le ricerche vadano avanti.