Secondo la Suprema Corte, infatti, perchè a favore del dipendente che ha subito episodi mortificanti venga riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento èsufficiente la presenza di una serie di azioni che, se esaminate singolarmente, appaiono idonee a minare quell’integrità psico-fisica che il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare in base a quanto stabilito sia dalla legge che dalla Costituzione.
Nella sentenza in esame, in particolare, èstato giudicato il caso di una farmacista che ha agito in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro, un caso caratterizzato da diversi presunti episodi di vessazione e da un tentativo di suicidio della lavoratrice. La richiesta di risarcimento avanzata dalla dipendente èstata perಠrespinta dalla Corte d’Appello, secondo cui gli episodi contestati non erano in grado di provare l’esistenza di una strategia mirata a “costringere” la dipendente a rassegnare le dimissioni, pertanto era da escludere la presenza di mobbing.
La Corte di Cassazione non si èperಠmostrata d’accordo. A suo avviso, infatti, se nel caso in esame i comportamenti messi in atto dal datore di lavoro vengono presi in considerazione singolarmente possono essere considerati in grado di ledere i diritti fondamentali del lavoratore, tutelati sul piano costituzionale. Pertanto, in caso di accertata violazione di tali diritti, il lavoratore ha diritto ad un risarcimento per il danno subito.