Ecco, quindi, che, magari una volta all’anno, anche la comune impiegata puಠconcedersi la borsa di Gucci, o suo marito la cravatta di Marinella. Gli acquisti compiuti da costoro avvengono con parsimonia, ma parliamo pur sempre della fascia di consumatori numericamente pi๠importante, e non soltanto in Occidente ma anche nei rampanti Paesi asiatici.
In Cina, India, Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, Emirati Arabi Uniti e via dicendo, si sta aprendo in questi anni per il lusso accessibile un mercato fatto di centinaia di milioni di potenziali acquirenti: un business colossale, tanto che si stima che nel 2015 il fatturato complessivo arriverà a 113 miliardi di euro, il 45% in pi๠rispetto ai 79 effettivi del 2009.
E una parte importante la puಠfare l’Italia: i nostri prodotti si sono conquistati negli anni una fama cosଠsolida che anche i nuovi benestanti thailandesi o indonesiani sono ben disposti a comprare ogni prodotto che rechi il tanto celebre marchio “made in Italyâ€, che occupa una quota fra il 10 e il 15% dell’export mondiale dei beni di lusso.
Il problema èche, dietro i colossi del settore, vi sono moltissime aziende con dimensioni cosଠridotte da avere grosse difficoltà ad imbastire esportazioni verso l’Oriente e superare le barriere protezionistiche locali.
Due sono le possibili soluzioni, secondo Confindustria: il gioco di squadra e il franchising. Le associazioni imprenditoriali devono premere per favorire la nascita di consorzi per la diffusione del “made in Italy†nel mondo, nonchè incoraggiare le partnership con produttori locali che garantiscono adeguati standard qualitativi.