Questo il caso: la donna aveva a suo tempo pagato una somma sottobanco ad un funzionario comunale per ottenere l’assegnazione di un alloggio popolare.
Le cose perಠnon andarono come previsto e la signora non ottenne comunque la casa.
Pensando di cautelarsi, la donna aveva perಠstipulato una sorta di contratto con l’impiegato, siglato con tanto di firma autografa di entrambi: in caso di mancata assegnazione, quest’ultimo s’impegnava a restituire la somma percepita.
Il caso emerse poi in seguito, con gli inevitabili risvolti giudiziari. Vistasi scoperta, la signora cercಠallora almeno di riavere indietro quanto versato, esibendo il famigerato contratto, e in primo grado il giudice di pace le diede ragione: fu varato un decreto ingiuntivo per imporre al funzionario la restituzione della somma di tasca propria (giacchè l’importo originario, ovviamente, era stato confiscato).
La sentenza fu perಠribaltata in appello dal tribunale, poichè si riteneva che tale presunto diritto alla restituzione non era tutelabile dal nostro ordinamento, impostazione condivisa infine dalla Suprema Corte nella recente sentenza n. 9441/2010.
La motivazione èla seguente: secondo la regola generale fissata dall’articolo 2033 del codice civile, chiunque versi una somma non dovuta ad un’altra persona puಠpretenderne la restituzione (principio di ripetibilità ). Il successivo articolo 2035, tuttavia, determina che tale regola non si applica quando il versamento della somma risulti essere contrario al buon costume.
La tesi della signora èche il versamento della mazzetta, benchè atto vietato, non incappasse nelle maglie dell’articolo 2035. Di diverso avviso la Cassazione, che ha qualificato la corruzione come atto contrario al buon costume e ha quindi fissato l’irripetibilità delle tangenti.