Contro questi illeciti (che possono assumere valenza anche penale) il nostro ordinamento ha individuato le apposite contromosse. Innanzitutto, chi emette fattura èsempre e comunque tenuto a riversare l’IVA sull’operazione documentata, anche se quest’ultima in realtà non èmai esistita. Cosà¬, d’altronde, stabilisce a chiare lettere l’articolo 21 della testo unico sull’imposta sul valore aggiunto.
Dall’altro lato, invece, il sedicente cliente non ha alcun diritto di detrarre l’IVA sul presunto acquisto.
In questo modo, insomma, entrambi i complici rimangono imbrogliati a causa del loro stesso inghippo. Inutile dire che l’interpretazione prevalente prevede effetti analoghi anche per quanto riguarda l’imposta sui redditi.
Tocca all’Amministrazione Finanziaria, naturalmente, dimostrare che l’operazione èinesistente, oppure che, in una variante ancora pi๠diffusa, i valori sono stati artificiosamente “gonfiati†in fattura.
Ma una volta dimostrato questo, le conseguenze sono quelle descritte: lo ha ripetuto per l’ennesima volta anche la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18018 dello scorso 6 agosto, che ha esaminato il caso di un gruppo di società edili che avevano architettato un complesso meccanismo di fatture reciproche per manovrare le liquidazioni IVA di gruppo secondo le convenienze, e che ora si troveranno a dover restituire allo Stato tutta l’imposta indebitamente detratta dai fittizi clienti di ognuna delle singole operazioni.